Questa volta nessun tentativo di allargare lo sguardo verso la società a partire da un avvenimento sportivo. Nessun richiamo alla Grecia classica, il mondo che 2800 anni inventò lo sport come “fatto sociale totale” e che spesso ha guidato le mie riflessioni, perché nelle radici della storia c’è sempre una chiave per leggere la contemporaneità. Ogni mercoledì, per dieci anni, è stato così. Non oggi. Questa rubrica, nata nel dicembre del 2015 poco dopo le mie dimissioni dal ruolo di CT della nazionale maschile di pallavolo, termina nell’ultimo giorno del 2025.
“Senza rete” diventerà presto un libro, grazie alla collaborazione fra Avvenire e la casa editrice Vita e Pensiero: una selezione di novanta articoli di questi dieci anni, in cui non è mai stato difficile trovare un tema degno di nota per riflettere su sport e società. Ci pensavo mentre scorrevo nella cartella del mio computer, con una certa nostalgia, i 480 articoli pubblicati su queste pagine in “Senza rete”. Così, per gioco, ho calcolato quante battute fossero: oltre il milione e mezzo, spazi inclusi, che ho pigiato sui tasti del mio computer nel più profondo rispetto per il mondo dello sport e per voi, lettrici e lettori. Sono passati dieci anni, sono cambiato io, è cambiato il mondo. Ho osservato da qui tre edizioni dei Giochi Olimpici estivi, due invernali, due Mondiali di calcio (ahimè, entrambi senza l’Italia), una pandemia e troppe guerre che hanno fatto male anche allo sport, ma soprattutto ho tentato di raccontare, con speranza e riconoscenza, tante storie di quello sport per tutti e di tutti, senza distinzioni di età, genere, talento, passione, provenienza geografica o conto in banca. Nel nostro Paese, ventisei mesi fa, lo sport è entrato nel testo della Costituzione. Un percorso al quale ho dedicato ogni energia nel mio nuovo ruolo di rappresentante delle istituzioni. Quel passaggio parlamentare, approvato all’unanimità, è quello che voglio lasciare qui, a compendio di questi miei dieci anni senza il campo di pallavolo, la quotidianità dell’allenamento, la routine dei ritiri, l’adrenalina delle partite: “Senza rete”, appunto. In quel comma che fa sì che oggi la Repubblica riconosca il «valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme» c’è il mio modello di sport, che spero di avere trasmesso qui nel modo più dignitoso possibile, nella sua immensa bellezza e anche, talvolta, nelle sue storture, contraddizioni, aberrazioni, perché lo sport è un “ideale mondo reale” e scusate se suona come un ossimoro. Voglio ringraziare Massimiliano Castellani, colui che dieci anni fa scoccò una freccia come quella di Cupido fra me ed Avvenire e i due direttori con cui ho avuto l’onore di collaborare e che mi hanno concesso di scrivere quel milione e mezzo di battute: Marco Tarquinio e Marco Girardo. A voi, lettrici e lettori, il mio grazie più grande per il vostro affetto. Questo non è un addio, ma un arrivederci. Ci incontreremo ancora sulle pagine di questo quotidiano, in un modo diverso. “Senza rete”, tuttavia, finisce qui. E le ultime battute sulla tastiera del mio computer voglio che siano (proprio come il numero del citato articolo della Costituzione) queste trentatré: è stato un immenso onore, grazie.
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